Rigiro la tessera celeste e bianca tra le dita, sopra c’è scritto “member” ed oggi è il giorno giusto per dimostrare di far parte del club più scorrazzante della città.
Lo chiamano “car sharing di flusso”. In pratica è un noleggio diffuso e ipertecnologico. Una flotta di smart sparpagliate per le strade, ne individui una libera grazie alla app sul cellulare, la prenoti e hai mezz’ora di tempo per raggiungerla.
La chiave è già incastonata vicino al cruscotto, grazie alla tessera celeste e bianca apri la portiera e da quel momento cominci a spendere 0,29cent al minuto. Ma non paghi l’assicurazione, la benzina, il bollo, le strisce blu, puoi entrare in centro. Puoi fare tutto ciò che vuoi.
Sembra caro ma non è caro. Sembra un sogno ma può diventare un incubo.
La mia smart è a 320 metri. La raggiungo e quando avvicino la tessera al parabrezza, lei mi riconosce.
“Buongiorno marco bariletti”, c’è scritto sul display.
Inserisco la chiave, muovo il cambio automatico e buttarmi nel traffico non mi è mai sembrato cosi entusiasmante.
Vado ad un appuntamento a pochi chilometri da casa. Zona Prati, zona di Papi, Santi e automobili in questi giorni.
Trovare parcheggio, anche con la Smart sembra un’impresa. Quando lo trovo capisco che la vera impresa è un’altra.
Riuscire ad estrarre la chiave.
Giro, schiaccio, forzo, piego. Niente da fare. Trovo un piccolo bottoncino sulla chiave, lo schiaccio. È il temutissimo “immobilizer”. Blocca tutto. Inserisco di nuovo il Pin, provo a estrarre la chiave e continuo a non riuscirci. Continua a leggere
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2go or not 2go?
Non é un paese per nessuno
Giornata di sole, decisione inevitabile: si va ad ascoltare un concerto nel giardino del Museo dei Bambini. Esco di casa coi 3 figli: due sul passeggino gemellare e uno mano nella mano.
Sono un padre eroe, ce la farò. Abbiamo la fortuna di vivere nei pressi della metro. E se vivi vicino alla metro, in qualsiasi città del mondo, puoi andare ovunque.
Non qui.
Non a Roma.
Non in questo paese.
La linea A conta 27 stazioni. Di queste, solo 11 sono provviste di ascensore. Le due stazioni vicino a casa mia, per fortuna, sono tra queste. Arriviamo davanti alla prima e ci fermiamo: padre eroe, bimbo 4enne e passeggino gemellare davanti alla porta automatica dell’ascensore che si apre/chiude in continuazione, nelle orecchie un messaggio automatico che ci informa “ascensore al piano, scendere”.
Inutile aggiungere che noi 4, su quell’ascensore, nemmeno riusciamo a salirci. Verremmo ghigliottinati dalla porta automatica in tilt. Continua a leggere
Eppur si muove (e vola)
Va bene, lo ammetto. Avevo dei pregiudizi e i pregiudizi non sono mai una bella cosa. Ma quando l’autobus con i suoi 14 passeggeri s’e’ avvicinato alla piazzola di sosta dell’aereo, me lo sono ritrovato davanti, ho letto la scritta verde Carpatair lungo la fiancata, è stato allora che ho pensato: “Ma chi me lo fa fare?”.
Poi le eliche di questo Saab 2000 hanno cominciato a frullare l’aria, la hostess era molto carina e molto sorridente, tutto sembrava tranquillo e mi sono rilassato.
Non c’era Dracula a bordo e non c’erano nemmeno i ritratti di Ceausescu e della moglie stampati sui sedili.
No, quel Roma Rimini non sarebbe precipitato. E nemmeno quello successivo, sul quale dovevo salire io. Stesso aereo, mezz’ora più tardi.
Il problema non era Carpatair. Il problema era Alitalia che proclama una cosa e ne mette in pratica un’altra.
Proprio per raccontare quella storia, ero lì, su quel volo. Continua a leggere
Intenzione di voto
Dunque, si comincia. Tecnicamente le prossime elezioni del 24 e 25 febbraio iniziano in queste ore. Gli italiani residenti all’estero, infatti, hanno appena ricevuto il plico elettorale e ora hanno meno di tre settimane per compilarlo e spedirlo agli uffici consolari. Tocca a loro eleggere i 6 senatori e i 12 deputati della circoscrizione estero.
Apro il cassetto del mobile, ripesco il certificato. Vedo che mancano tanti timbri ma non so ancora se e quando ne farò aggiungere un altro. Insieme al libretto, c’è un piccolo foglio, con annotata a penna una vecchia poesia di Trilussa del 1930.
Un giorno tutti quanti l’animali
Sottomessi ar lavoro
Decisero d’elegge’ un Presidente
Che je guardasse l’interessi loro.C’era la Societa de li Majali,
La Societa der Toro,
Er Circolo der Basto e de la Soma,
La Lega indipendente
Piccoli indizi senza importanza
Sono quasi due giorni che non riesco a pensare ad altro. Precisamente da quando mi hanno chiamato e dato le coordinate di quella storia. Centro città. Sottopassaggio. Incendio.
Due corpi carbonizzati.
Dentro al tunnel è tutto nero. L’odore è forte, troppo, viene da respirare con la bocca per non sentire.
Il fuoco è stato talmente intenso qui dentro che i rivestimenti in pietra del soffitto si sono staccati e sono crollati.
In terra restano solo gli scheletri anneriti delle reti da materasso sul quale dormivano due persone.
Come nei film e come nei romanzi gialli, il Commissario indossa un impermeabile beige e dispensa certezze.
La Polizia non ha dubbi.
“Erano due somali, abbiamo trovato i documenti. Dormivano nel sottopassaggio e per scaldarsi hanno acceso un fuoco. Le fiamme si sono mangiate prima i cartoni, poi le coperte e infine i materassi sui quali dormivano. Tutta roba sintetica, ci vuole un attimo. Un incidente, un terribile incidente”.
Poi però succede qualcosa e il mistero prende forma.
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Nun propio ‘na serataccia
Li ho conosciuti in una notte di passaggio. Hanno l’allegria contagiosa delle persone libere e il passo pesante di un vecchio ubriacone. Suonano, cantano e fanno ballare con coppole e vecchi cappelli calcati sulla testa a mascherare quelle facce da semi-conosciuti, da quasi famosi.
Vengono dai set di Romanzo Criminale e dei Cesaroni, tra di loro c’è di tutto, dal blogger geniale e ironico al cantautore inizio anni ’90 che ha partecipato anche a Sanremo.
Si ritrovano tutti assieme in una strampalata terra di confine tra Nino Manfredi e Bob Marley, Gabriella Ferri e Manu Chao, Alberto Sordi e i Pogues, Pasolini e i Clash.
Cantano di prigioni e di accoltellamenti sul lungotevere, di periferie e borgate, di amori maledetti e inseguimenti sbirreschi, di cravattari e tradimenti. Per essere più credibili, si sono dati un’etichetta volutamente sbracata, riduttiva, dispregiativa.
Sono l’ Orchestraccia e fanno rivivere stornelli romaneschi e poesie di Trilussa o Petrolini su un tappeto reggae-ska-folk. Continua a leggere
La stanza del figlio
Alberto ha cambiato casa spesso in questi ultimi 17 mesi. Almeno tre volte, un trasloco dietro l’altro. Per fortuna la sua mamma non lo lascia mai, lo segue ovunque, lo sprona e lo coccola.
Anche qui, nella sua nuova casa, la stanza 219.
Patrizia è una bella signora bionda, con gli occhi azzurri pieni di lacrime, che ha solo voglia di raccontarsi, perché forse chissà, parlando, parlando, parlando troverà una spiegazione impossibile da trovare.
Accarezza Alberto e gli fa ruotare leggermente il viso.
“Vedi? Lo vedi cosa hanno fatto?”
Lo vedo.
Vicino al letto di Alberto c’è un monitor al plasma sempre acceso. In questo momento Antonella Clerici spadella e ride.
Appesi alla parete, come nella stanza di qualsiasi ragazzo, fotografie, sciarpe, la dedica di Alex Britti. E tante foto di Alberto.
Alberto che suona la chitarra. Alberto che abbraccia la sua ragazza. Alberto che sorride. Alberto in viaggio per l’Europa. Alberto che scherza con gli amici.
Alberto ora invece dorme e basta.
Un sonno impalpabile che nemmeno i medici riescono a scandagliare fino in fondo. Coma, stato di prima coscienza, stato vegetativo. Continua a leggere
La porta chiusa
Il ragazzo passava per quella strada quasi tutti i giorni. Via Oslavia era un’elegante arteria del quartiere di Roma Prati, puntellata di palazzi tardo ottocenteschi. E ogni volta che sfrecciava davanti al 39B con la sua vespa, gettava uno sguardo verso quel portone, inesorabilmente chiuso. Ormai quasi non si voltava nemmeno più a controllare.
Fino a ieri, quando con la coda degli occhi ha visto che era aperto. Anzi, non aperto. Proprio spalancato.
Come un invito, un richiamo, un sussurro.
Il ragazzo a quel punto parcheggia la vespa e si toglie il casco.
Attraversa la strada con decisione, punta l’obiettivo e entra nell’androne.
Un mosaico di mattonelle azzurre sul pavimento, muri color crema, qualche decorazione liberty in stucco bianco. Davanti a lui, un antico ascensore in legno con catene e cavi imburrati di grasso e olio.
Il ragazzo comincia a salire le scale, gradini in marmo, a due a due. Su ogni pianerottolo, nota due porte in legno e prosegue. Sale fino ad arrivare al piano che cerca: è il quarto, l’unico pianerottolo con una porta sola.
Le due maniglie in ottone sono unite da una pesante catena ricoperta di gomma rossa e sigillata da un grosso lucchetto.
Il ragazzo guarda il campanello e vede che c’è ancora la targhetta: Balla.
Era proprio quella la casa che cercava, l’abitazione dove Giacomo Balla, artista, pittore, futurista trascorse gran parte della sua vita. Continua a leggere
Qui va tutto a rotoli
Spesso un quadro di insieme lo comprendi meglio dai particolari. Le piccole cose, i frammenti, i minuscoli dettagli. Oggi è stato il primo giorno di scuola di mio figlio.
Scuola materna, quella che un tempo si chiamava asilo.
Lo zainetto preparato con cura la sera prima, l’emozione del grembiule, quasi una corsa verso quel grande edificio in stile ventennio, un palazzone leggermente concavo, color ocra, con una gigantesca scritta SCUOLA, in una piazza centrale e trafficatissima di Roma.
Sulla soglia della classe, mentre i bimbi cominciano a studiarsi e a giocare, la maestra si avvicina e ci allunga un foglio.
E’ la lista delle cose che i genitori devono portare, quasi una lista della spesa.
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