Quando mi alzo per andare in bagno non posso far altro che fermarmi davanti alla fila 28, l’ultima. I due agenti dell’Interpol guardano e smorfiano come per dire “Eh, dai, torna al tuo posto”.
Vicino a loro, Fabrizio Corona e i suoi tatuaggi fissano il blu, fuori dal finestrino.
“Mi scappa sul serio, non sto provando a fare il furbo”, dico.
E’ a quel punto che Corona si gira verso il corridoio.
In questa ennesima piroetta del suo look assomiglia vagamente a Johnny Depp.
“Giornalista?” chiede.
Non ha più le manette ai polsi e indossa una maglietta con il ritratto di un indiano.
Non può essere un caso, per uno così attento al look.
Lui è quell’indiano: l’uomo solo contro il sistema, il coraggioso con arco e frecce opposto ai fucili e alla polvere da sparo, il ribelle sognatore che non segue la strada segnata della ferrovia ma lo scarto del bisonte, lo sconfitto che indica la via alle generazioni future. No, quella maglietta non l’ha scelta a caso.
“Si”, rispondo.
“Di che cosa?”. Col dito faccio segno uno, come Tg1, come il primo canale.
“Ti posso fare una domanda?”, mi chiede. I due dell’Interpol sbuffano e mi fanno cenno di andare, ma il bagno è ancora occupato.
“”Tu cosa pensi del mio caso?”, mi chiede lui.
“Penso che le sentenze definitive vadano rispettate, tutto qua”, mi sforzo di essere morbido, il ragazzo che ho davanti crede davvero di essere un perseguitato politico, un fuggiasco, un giusto inseguito da orde di malvagi che lo vogliono zittire.
Da tre giorni, da quando lo hanno riacciuffato in Portogallo, lancia proclami, incita alla rivolta contro un sistema di cui è stato figlio devoto per anni, chiede di essere scagionato sulla base dell’assioma “in un paese di ladri, puttane e assassini, l’unico che va in galera sono io”.
Perché un tempo lo chiamavano il Re dei Paparazzi ma ora, su questo aereo che lo riporta in Italia, è solo un detenuto che sta per entrare in carcere.
“Tu, giornalista, dovresti interpretare quello che succede, spiegare, commentare”, ora quasi ghigna dietro agli occhiali bluastri.
“No, Fabrizio. Devo solo raccontare quello che succede, poi ognuno si fa la sua idea”.
“Troppo facile, così”
“No, credimi. Non è troppo facile”. E’ la serratura del bagno e lo sbuffare dei due agenti dell’Interpol che mettono fine alla conversazione.
Appena chiusa la porta di quel metro quadrato occupato da lavabo, tazza, fasciatoio, erogatore di sapone e di salviettine e specchio, tutto improvvisamente torna.
In fondo in fondo, non può essere un caso nemmeno il fatto che quando ha scelto di scappare, di fuggire alla condanna che lo inseguiva, sia arrivato fino ai confini occidentali d’Europa. A Cascais, là dove Umberto II, ultimo Re d’Italia trascorse il suo esilio.
Perché nonostante tutto il ragazzo è sveglio. E Fabrizio aveva capito di essere solo l’ennesimo Re che stava perdendo la sua Corona.
gennaio 25, 2013
Senza Corona
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Giornalista, padre, blogger.
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Questo articolo è stato inserito il venerdì, 25 gennaio 2013 alle 11:43 pm ed etichettato con belen rodriguez, cascais, corruzione, estorsione, estradizione, fabrizio corona, indiani, interpol, italia, lisbona, manette, marco bariletti, Politica, portogallo, ribellione, tg1, vallettopoli, viaggio e pubblicato in Il blocco degli appunti. Puoi seguire tutte le risposte a questa voce con il feed RSS 2.0.
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